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''IL CASO MATTEOTTI''. E' IN LIBRERIA EDITO DA BULZONI LO STORICO TESTO TEATRALE DI FRANCO CUOMO CHE RICOSTRUISCE I DRAMMATICI GIORNI CHE PORTARONO ALL'ASSASSINIO NEL GIUGNO DEL 1924 DEL LEADER SOCIALISTA E ALL'ASCESA DEL FASCISMO

03 Dicembre 2009
Il caso Matteotti andò in scena nell’aprile 1968 a Roma (Teatro della Lungara, Trastevere) per la regia di Edmo Fenoglio, con Arnaldo Ninchi nel ruolo di Matteotti e Gianni Musy in quello di Mussolini. Altri interpreti: Walter Maestosi (Farinacci), Pino Colizzi (Tancredi), Tino Bianchi (Del Giudice), Vittoria Dal Verme (Velia Titta Matteotti), Olimpia Carlisi (la Contessa), Claudio Dani (Turati), Arnaldo Bellofiore (De Bono), Claudio Sora (Finzi), Antonio Meschini (Marinelli), Dante Biagioni (Rossi), Renato Mori (Dumini). Presero complessivamente parte allo spettacolo, alternandosi nei diversi ruoli di deputati, sicari, magistrati, ambasciatori, uscieri e militi, ventitré attori che per l’occasione fondarono insieme al regista la compagnia Co-Dram, prima cooperativa di attori in Italia. Firmò le scene Lucio Lucentini, i costumi Maria De Matteis, le musiche Romolo Grano. Curò le azioni mimate il coreografo Roy Bosier.

Storia e scrittura scenica

(Dal programma di sala del Teatro

della Lungara, aprile 1968:

interventi dell’autore Franco Cuomo,

del critico Mario Raimondo

e del regista Edmo Fenoglio)

Franco Cuomo: reinventare la storia

Il documento può fare da pretesto teatrale, non essere di per se stesso teatro. Altrimenti lo zelo del rigore storico diventa necessariamente un limite. E poi, se si vuole fare della storia a scapito del teatro, perché non scrivere un saggio a vantaggio di entrambi?

Quando la storia diventa teatro, il teatro comincia laddove finisce la storia. Drammi storici in assoluto non esistono: esistono momenti in cui la storia non è soltanto storia e diventa (o può diventare) teatro: la trascrizione di tali momenti è ciò che comunemente chiamiamo dramma o romanzo storico. Altrimenti è cronaca e basta. Sempre che non si voglia considerare teatro-inchiesta anche Shakespeare quando trae motivo di tragedia dalla storia.

Per quanto mi riguarda – e per quanto riguarda in specie questo mio Matteotti – il problema dell’eventuale conflitto tra fedeltà storica ed esigenze puramente teatrali non esiste. Perché, per una di quelle straordinarie (ma non rare) opportunità che la storia offre talvolta al teatro, le premesse per l’invenzione scenica sono già nel contesto storico dei fatti.

Se Mussolini è grottesco in scena, lo è nella misura in cui realmente lo è stato nella vita. Ne deriva uno stridente contrasto con Matteotti – è chiaro – e con ciò che Matteotti rappresenta. Ma se questo può corrispondere a una qualsivoglia ipotesi teatrale è solo perché già la storia ne propone i segni anzitempo.

Nella vita come sulla scena esistono uomini e personaggi. Matteotti non è un personaggio: è un uomo. Mussolini è invece (soltanto) un personaggio. Mettiamoli entrambi in scena. E’ una finzione. Ma Mussolini era già attore recitante nella storia. Matteotti non ha mai recitato.

Tutto questo non elimina il problema del dialogo e quello conseguente del linguaggio. La necessità d’inventare (reinventare, nella misura in cui si tratta di manipolare la realtà) permane comunque.

Nel caso di Mussolini e dei suoi complici, allora, ho fatto ricorso a modalità espressive già collaudate, che sono quelle del costume fascista, non necessariamente vincolato alla retorica originaria della pubblicistica d’epoca (fuori dei moduli Minculpop, per intenderci) ma comunque identificabile in quell’arroganza non soltanto interiore che, nella lingua come nei gesti, nell’amore come nelle più irrilevanti banalità quotidiane, ebbe sempre a caratterizzare (e caratterizza in modo più insidioso tuttora, perché velato) il comportamento dell’“uomo fascista”.

Il caso – a livello di mimesi e di parola – è analogo alla tematica invariabile dei vezzi materni sulla culla del neonato, o ancora alle farragini su cui si fonda sotto ogni latitudine il codice della conversazione sentimentale.

Non a caso, del resto, per il prototipo dell’“uomo fascista” (facilmente riconducibile a un una varietà assai limitata di caratteri base, espressione di una tipologia elementare) la mamma è come la bandiera; e il duce è figura “maschia”, che approfitta della folla come di una sciocca innamorata. Chissà se qualche anno più avanti l’emblema famigerato dei “battaglioni M” abbia voluto significare soltanto Mussolini e non invece anche Mamma.

Mario Raimondo: il funerale della libertà

Il tempo storico è concreto e riconoscibile, il caso ancora attivo nella capacità di suscitare emozione; e tuttavia non sono questi gli elementi sui quali Franco Cuomo gioca la carta e la dimostratività del suo dramma.

Quando Il caso Matteotti mi venne in lettura (per il premio Rosso di San Secondo) ciò che subito m’interessò fu proprio la singolare capacità che il suo autore dimostrava di tenersi alla larga dalle emozioni e dalle ricostruzioni d’ambiente. Mi sembrò di poter riconoscere nella evocazione del caso una dimensione di moralità assolutamente contemporanea (voglio dire di oggi, come se ciò che avvenne nel giugno 1924 fosse avvenuto in una lontana galassia) nella quale era facile formare il giudizio e definire la rappresentazione.

La stessa struttura drammaturgica, del resto, corrisponde bene a questa formula di assoluta dimostratività: credo che si potrebbero dare dei titoli alle successive fasi del testo (La denuncia, La congiura, Il funerale della libertà) per indicarne tema, andamento narrativo, stile. L’opera di Franco Cuomo apprende in questo la lezione del nuovo teatro, che si inventa drammaturgicamente sul segno dei rapporti scenici e delle situazioni che i personaggi sono chiamati a definire: così l’alternarsi, il sovrapporsi, persino lo scontrarsi dei moduli espressivi ha un suo preciso senso di dimostrazione e di rappresentazione, libera e aperta, di fatti da rivisitare senza l’impaccio delle mitologie o la comodità delle reticenze.

Che poi da una operazione tanto rischiosa nasca in effetti un dramma di singolarissima lucidità, nel quale all’aggressivo, torvo, isterico, farsesco istrionismo dei membri dell’associazione a delinquere e del loro capo si oppongono la ragione e la coscienza di alcuni (ma ormai fatto individuale, senza sostegno nella comunità, dov’è ormai cominciato il sonno della ragione); che da quella operazione – dicevo – nasca un dramma così nostro nella sua violenta e contaminata espressività, è il segno di un lavoro di autentica definizione teatrale, sottratto agli equivoci compositivi della lettura: cronaca-storia.

E’ facile intendere, allora, come la proposta, scaturita da una cooperativa di attori, di autori e di registi, abbia portato a un risultato fecondo, sorretto da autentica solidarietà. E’ degna d’interesse la proposta drammaturgica (un autore italiano giovane, un autentico testo teatrale) e lo è al tempo stesso la struttura del gruppo (una iniziativa di base, che contesta l’immobilità delle strutture teatrali esistenti e propone come alternativa una possibilità di teatro libera e aperta, tendente a ricostruire la dialettica di un rapporto determinante con il pubblico).

E’ da queste ragioni – e da una fiducia profonda nella libertà dell’agire sulla scena – che nasce l’occasione di questo spettacolo.

Edmo Fenoglio: una tragedia che è anche farsa

10 giugno 1924. Il fascismo scaraventa contro la storia – contro se stesso – il cadavere di Matteotti. In Italia le poche ricostituite strutture ideologiche sono ormai inconsistenti, mentre l’organizzazione politica popolare è colpita a morte nei suoi centri vitali, che non sono tanto i partiti quanto le cooperative e i sindacati. Rimarrà questo delitto un problema “morale” per alcune anime belle, senza riuscire a diventare “politica”: sarà soltanto la maniera per morire più o meno in pace con la propria coscienza.

E in breve Mussolini cancellerà in Italia non una democrazia mai esistita ma i barlumi di un vivere civile che il Risorgimento prima e le grandi battaglie sociali poi erano riusciti ad accendere.

Ha vinto il lungo sonno. Ché il fascismo proprio questo è stato: il lungo sonno della ragione.

Si perde ogni senso morale, ogni senso del limite, ogni senso del ridicolo: si scatena una tragica farsa. Un’era che nell’arco di soli venti anni costerà vite umane a centinaia di migliaia, terrà il paese inchiodato a posizioni di controriformistica arretratezza, distruggerà il senso dello Stato, infetterà le generazioni a venire; ma in termini di teatro sarà soltanto, sempre, farsa.

Farsa di cui bisogna avvertire e ed evidenziare gli scricchiolii sinistri, le giunture dissaldate l’estetica difforme, la vocazione cemeteriale: l’assoluta e volgare carenza di ogni direzionalità.

Questo è da rappresentare.

Il discorso di Matteotti non è da mettere in scena come una tranche de vie o un documento di intervento parlamentare: tenere bene alla larga le strade (per altro completamente estranee alla nostra tradizione) del teatro-cronaca, della ricostruzione documentaristica. Quel discorso, fatto da quell’uomo in quel parlamento in quella data, è in termini di rappresentazione un conflitto tra razionale e irrazionale. Da una parte la parola e la fermezza, dall’altra l’urlo e il movimento scentrato.

E Palazzo Chigi, e Palazzo Wedekind, e Mussolini e i suoi gregari non sono che i covi e una banda di criminali con la struttura mentale – e la capacità organizzativa – di un gruppo di ladruncoli, animati però dal cinismo delle peggiori canaglie, prive di scrupoli, del tutto indifferenti al delitto.

Anti-uomini. Ecco forse la ragione vera per la quale il fascismo è passato. Nessuno seppe pensarli e combatterli allora come dei criminali puri, incapaci di fare politica.

Gli avvenimenti precipitano addosso a Mussolini senza che mai egli sappia prevederne uno. Soluzioni di emergenza, senza connessione tra loro, vengono maldestramente adottate di volta in volta. Si tenta solo di salvare la pelle, nel 1924 a Roma come nel 1945 sulle rive del lago di Como.

Pensiamo un momento a un altro criminale, ma lui perfettamente organizzato: Adolf Hitler. Anche Hitler ha una specie di suo “delitto Matteotti”. E’ l’incendio del Reichstag. Ma là esiste un vero disegno politico: nel giro di ventiquattr’ore gli oppositori sono tutti liquidati. Il gioco è ormai fatto. Invece qui da noi non c’è disegno alcuno: l’uccisione di Matteotti viene decisa a caldo, come una vendetta personale dettata da risentimento infantile.

Lo spettacolo deve creare un’atmosfera – quest’atmosfera – grottesca ma lacerata. Deve inventare un linguaggio, un teatro “italiano” che in Italia è quasi tutto da fare. Cerchiamo di cominciare.







Personaggi

“I gruppi di due, tre e anche quattro personaggi dovrebbero essere sempre recitati da un unico e medesimo attore, dal momento che in un’epoca in cui si esige dagli individui il servizio militare obbligatorio non è necessariamente un merito o una colpa, o anche soltanto una scelta del carattere, che uno vesta questa o quella uniforme, trovandosi dalla parte del boia o da quella della vittima.”

(Rolf Hochhuth, Nota ai personaggi de Il vicario, 1963)

Giacomo MATTEOTTI

Benito MUSSOLINI

Filippo TURATI

Roberto FARINACCI

Aldo FINZI

e altri deputati

Alfredo ROCCO presidente della Camera

Cesare ROSSI capo dell’ufficio stampa di Mussolini

Giovanni MARINELLI segretario amministrativo del Pnf

Emilio DE BONO comandante della Mvsn

Renner RODE ambasciatore d’Inghilterra

Camille BARRERE ambasciatore di Francia

Cardinal MAFFI primate di Pisa

Guido NARBONA segretario del Fascio di Torino

Filippo FILIPPELLI direttore del Corriere italiano

Mario CARLI direttore dell’Impero

Amerigo DUMINI capo della ceka

Albino VOLPI sicario della ceka

Aldo PUTATO sicario della ceka

Mauro DEL GIUDICE giudice istruttore

Umberto TANCREDI sostituto procuratore

Vincenzo CRISAFULLI procuratore generale

e altri magistrati

VELIA TITTA vedova Matteotti

CONTESSA amante di Mussolini

SEGRETARIA di Mussolini

NAVARRA usciere di Mussolini

STRILLONI











Nota al testo

Gli avvenimenti riportati sono tutti desunti dalla realtà storica, anche nei loro più grotteschi dettagli. Se in taluni punti si sono rese necessarie trasposizioni di tempo e di luogo – e mutamenti nell’ordine cronologico, come l’inserimento di riferimenti a fatti d’epoca successiva, o a discorsi che Mussolini e altri personaggi ebbero a pronunciare in diversa occasione – ciò è dovuto all’esigenza esclusivamente teatrale, tecnica se si vuole, di conferire all’insieme una efficacia espressiva che rispondesse a una verità storica plausibile. Ogni artificio in tal senso è dunque rivolto a preservare l’unità drammatica e la continuità scenica della vicenda, senza però tralasciare l’intenzione fondamentale di riproporre insieme alla cronaca fedele dei fatti un’altrettanto fedele ricostruzione delle circostanze in cui quei fatti ebbero a compiersi.